rivista di letteratura in embrione

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Deborah Gambetta
Gli occhi della violenza
Note biografiche


GLI OCCHI DELLA VIOLENZA
(UN’ARANCIA QUASI MECCANICA)

racconto di

Deborah Gambetta



Nel momento in cui Lele aveva fracassato il ginocchio destro di Luca, Robby aveva capito che nella vita non sarebbe mai stato nessuno.
Era stata una rivelazione, e come tutte le rivelazioni del mondo dopo l’attimo di stordimento era subentrata l’inequivocabile certezza della propria miseria. Luca e Lele erano amici da quindici anni ma Luca aveva sbagliato e Lele l’aveva punito. Anzi, per essere sinceri Lele gli aveva detto ‘adesso sei avvertito’. E se non fosse stato per il rumore vero della rotula che si sbriciolava, per le lacrime vere, per il sangue e per le grida altrettanto vere, quell’avvertimento sarebbe sembrato a Robby una infelice battuta di qualche infelice film di serie-z.
Ma Lele era il più stronzo di tutti e il più cattivo di tutti e proprio perché più stronzo e più cattivo poteva comandare, spaccare ossa agli amici, farla franca e continuare a comandare. Tanto nessuno si sarebbe mai messo sulla sua strada.
In tre facevano cinquantaquattro anni tondi tondi. Diciotto a testa. Ma a differenza di Luca e di Robby, Lele aveva qualcosa in più, qualcosa che lo poneva un gradino sopra agli altri. Sempre e comunque. Nel bene e nel male.
In realtà, di bene Lele nella sua vita ne aveva fatto molto poco. A undici anni aveva tentato di dare fuoco alla sorellina di sette. Lui aveva detto che era per scherzo, ma nelle sue mani che puzzavano ancora di alcool puro e nel lampo al neon dei suoi occhi grigi, di una qualsiasi cosa che potesse anche di striscio assomigliare a uno scherzo non c’era nemmeno l’ombra.
Il più stronzo e più cattivo di tutti a sedici anni si era fatto nove mesi dentro per stupro. Lei era una biondina tutta casa, studio e verginità. Lele era convinto che una quarta di reggiseno non poteva in alcun modo essere vergine, così la scommessa con gli amici lo aveva portato dritto come un fuso nuovo di zecca a guardare il mondo attraverso una bella finestra grigliata.
Ma il suo curriculum vitae contemplava tutta una serie di visitine a quegli stronzi fottuti dei caramba anche per molto meno. Spaccio, ubriachezza molesta e rissa erano le voci più gettonate, furto e atti di vandalismo richiedevano troppo dispendio di energia. E Lele era un tipo fondamentalmente pigro.


Per tutta la durata del pestaggio Robby era rimasto appoggiato col culo alla fiancata della macchina-paglia-in-bocca-braccia-incrociate. Nemmeno per un’ istante si era sognato di intervenire. Né quando gli era balenato nel cervello che forse Lele stava se non sbagliando almeno esagerando, né quando il sangue che schizzava dalla faccia di Luca gli aveva sporcato i pantaloni. La questione riguardava Lele e Luca. E allora che se la sbrigassero da soli. Ma che si muovessero. Perché lui si stava annoiando.
Poi era successo.
Quando ormai Luca se ne stava a terra ansimando come un maiale, con la faccia ridotta a una maschera di sudore, polvere e sangue, Lele gli aveva dato il colpo di grazia: una raffica di quattro pestoni firmati Doctor Martens sul ginocchio destro. E in quel momento Robby aveva colto nella sua più totale pienezza la differenza non solo tra Lele e il resto dei balordi lui compreso, ma anche il sottile limite che separa tutta la gamma di atti più o meno violenti dalla violenza pura.
L’accanimento finale di Lele contro il ginocchio di Luca non era dettato né dalla rabbia né da qualsiasi altro sentimento. Rappresentava l’essenza stessa della violenza.
E il freddo compiacimento negli occhi di Lele segnava quel confine che Robby non avrebbe mai varcato.


Aveva visto Arancia meccanica almeno sei o sette volte mentre dalla parete della sua camera Alex lo aveva guardato ogni giorno da almeno quattro anni. Ma quel pomeriggio fu come se Robby vedesse quel volto per la prima volta. Si alzò dal letto su cui era sdraiato già da un paio d’ore e si avvicinò alla locandina.
La guardò, la scrutò, la studiò finché qualcosa non gli fece sbabam nel cervello e la sua mente si illuminò a giorno: gli occhi di Lele erano gli occhi di Alex. Non il colore o la forma o il modo di guardare. Ma gli occhi. Semplicemente gli occhi.
Aveva visto un sacco di film, ma nessuno, nemmeno il protagonista di Natural born killers, di cui tra l’altro non ricordava nemmeno il nome, aveva gli occhi di Alex.
Alex.
Lele.
Il confine che lui non avrebbe mai varcato.


“Che hai da guardarmi in quel modo?”
“Niente. Pensavo”
“Beh non pensare e rolla quella canna”
Il Golf bianco inghiottiva asfalto a 160 km mentre i fitti cespugli autostradali scivolavano lungo i bordi degli occhi di Robby. Accese la canna, diede due tiri e la passò a Lele.
“Dove stiamo andando?”. La domanda era una scusa per guardare Lele, guardargli il profilo spigoloso, la curva del naso e del mento, le labbra sottili e lo spicchio stretto di un occhio. Ma quel fissarlo ben oltre la durata della domanda lo fece vergognare. Sbatté le palpebre e si girò.
Lele gli passò la canna: “si va da Steve. C’è una festa”.
Robby annuì mentalmente. Poi, da un vuoto nero aldilà della memoria, senza preavviso e senza niente, la faccia di Luca gli si parò davanti. Si chiese dove fosse. La notte prima l’avevano lasciato svenuto, lordo di sangue e con una gamba spezzata contro i cessi del Bagno Corallo.
Sorrise e strinse gli occhi.
Gli occhi di Alex e gli occhi di Lele.
Diede due tiri e ripassò la canna.


La festa era in un casolare. Solo vigneti e campi coltivati, una luna grossa così e talmente tante stelle che ricordarono a Robby la gita al planetario di seconda media.
La parentesi retrospettiva si chiuse di fronte alla musica e al casino di voci, si allontanò di fronte al puttanaio di gente, si annegò dentro il primo sorso di Guinnes.


Tempo zero e Lele era già stato risucchiato da quella melma vociante di stronzi sparsi nell’aia come galline. Robby girò su se stesso e uno Steve tutto occhi pallati sbucato da chissà dove gli mise in mano un bicchiere pieno di sangria.
“Dov’è Lele?”
“L’ho perso. Non so”
“Non voglio casino. Niente stronzate stasera”
(fottiti)
Steve Occhi Pallati gli aveva regalato uno sguardo di fumo e si era allontanato. Robby aveva trangugiato la sua sangria e gli aveva girato le spalle.
Non conosceva un cane morto a quella cazzo di festa. Un tipo gli passò accanto e lo spintonò.
“Scusa”
“Scusa un cazzo”.
Afferrò un’altra Guinnes da un tavolo e si avvicinò a un cerchio di gente urlante in fondo all’aia. Si accese una paglia e infilò la testa tra due crani tatuati.
Una stronzetta si stava spogliando fuori tempo techno. Era sbronza dura, due tette di sedici anni in un reggiseno da dodici e un’espressione da troia patentata.
Un tipo con due braccia da scaricatore di porto si staccò dal branco circolare e si avvicinò. La prese per i fianchi. Lei ci stava. Ancheggiava eccitata dallo sguardo truce di Scaricatore di Porto e dagli urli del branco. Stettero un po’ così poi Scaricatore di Porto pestando la terra anche lui fuori tempo le infilò le mani sotto la minigonna. Il branco gridò ‘fuori il culo’ e Scaricatore gli sollevò la sottana. Il culo abbronzato e sodo di Sedici Anni strappò un ululato di approvazione. Scaricatore le abbassò le mutande e a quel punto Robby si senti tirare il pacco e tra spintoni vari si allontanò.
Due occhi da Catwoman gli misero in mano un altra sangria. Giusto gli occhi perché per il resto era un cesso. Robby aveva tirato le labbra in un sorriso e se n’era andato. Catwoman gli mormorò dietro fanculo ma Robby era già troppo lontano per sentire.
Si mise alla ricerca di Lele. La guinnes-sangria lo fece pensare ai suoi occhi. Agli occhi di Alex.
Fece il giro del casolare. Gettò il bicchiere e la bottiglia di birra quasi vuota. Dietro la casa le voci e la musica erano d’ovatta e Robby sentì un parlare soffocato maschile e un mugolare strozzato femminile. Proveniva da una specie di capanno. E più Robby si avvicinava più il soffocato maschile sapeva di imprecazione e godimento e lo strozzato femminile di paura e dolore.
Dal groviglio di tre corpi Robby riconobbe Lele e Steve (per fortuna niente stronzate, eh?). Steve si stava inculando una tipa tenendola per i capelli, Lele era di fronte a lei e stava armeggiando con le mani sulla sua faccia. Quando vide quello che Lele le stava facendo un rigurgito di Guinnes-sangria gli salì fino in gola. Lele stava stagliuzzando con un coltellino la faccia della tipa. Tanti taglietti uno accanto all’altro sulle guance, attorno alle labbra e sulla fronte. Doveva essere così perché il sangue usciva da quelle fessure rosse, un mucchio di sangue che Lele leccava. Quando glielo aveva leccato le comprimeva la faccia facendone uscire ancora. Una maschera rosso rubino che veniva leccata e rileccata.
La tipa doveva essere ubriaca, o forse solo stremata, perché non opponeva quasi resistenza. Piangeva in silenzio emettendo solo di tanto in tanto qualche suono stridulo.
Steve smontò da Rosso Rubino e disse: “E’ tutta tua”.
Rosso Rubino cadde di lato e Lele mormorò: “Cazzo. Potevi aspettare. Devo averle tranciato un orecchio così”
“Fa vedere? Merda come l’hai ridotta. Tu sei pazzo”.
Risero.
“Guardati” continuò Steve “sei tutto sporco di sangue”.
Robby non sapeva cosa fare. Era rimasto immobile col fiato a metà della gola. Non gliene fregava un accidente di Steve, lui era solo uno stronzo, ma Lele, Lele si che era grande. Se ne stava lì in ginocchio col coltello fra il pollice e l’indice A guardare la tipa sotto di se. Se ne stava lì tranquillo, con le mani, il volto e il petto imbrattati di sangue come se niente fosse. Sembrava riflettesse. Sembrava, perché le feritoie grigie che erano i suoi occhi non esprimevano niente o se esprimevano qualcosa quello era una sorta di sereno e compiaciuto godimento. Robby lo sapeva bene. Lo conosceva quello sguardo. Lele aveva raggiunto il grado pieno di soddisfazione e adesso era a posto.
“Allora che fai? Non te la trombi?”
“No. Chi se ne frega”


Si era allontanato. Non voleva che Lele e Steve lo vedessero. Lele si sarebbe incazzato. Odiava le intrusioni e di certo non voleva trovarsi anche lui con briciole di ginocchio al posto della rotula. Fece il giro della casa e fu riassorbito dalla musica e dalle voci.
Quella scena lo aveva caricato di brutto. Gli aveva ficcato in mezzo al petto la voglia di fare qualcosa. Un arpione di metallo fuso tra il cuore e lo stomaco. Lele era grande!
Si fece largo tra un gruppetto di ragazzi e si fiondò al tavolo della sangria. Bevve direttamente dal mestolo finché non sentì quel miscuglio liquoroso bruciargli l’esofago e un pezzetto viscido di frutta otturagli la gola. Tossì, sputò, si pulì la bocca e disse cazzo vuoi a uno stronzo che lo guardava.
Si accese una paglia e si allontanò. Tirò un paio di boccate a pieni polmoni e la vertigine lo investì come una vampata. Adesso si sentiva abbastanza sbronzo, decisamente carico, fottutamente cattivo.
Dalle finestre spalancate della casa altro rumore di voci. Guardò in alto e notò quanto fosse grande quel cazzo di casolare. A giudicare dalle finestre ci dovevano essere un casino di stanze. Gettò la paglia ed entrò. Il pianterreno era l’unico illuminato. C’erano persone ovunque. Gruppi di gente seduta per terra che rideva e si raccontava stronzate. Un tipo si stava facendo una spada.
Un budello stretto, buio e scheggiato era la scala che portava al piano superiore. Salì i gradini lentamente. Di sopra, con tutte quelle finestre spalancate e quella luna da antologia già si vedeva di più. C’erano davvero un sacco di stanze. Robby ci guardò dentro infilando la testa. Vuota. Vuota. Due stronzi (ma che fanno? Cazzo! S’inchiappettano!). Tre tossici. Un cannonaro (ma quante stanze c’ha sto posto)... “Ehi!!!”.
Un armadio a due ante uscito da una porta gli era passato accanto pestandogli un piede. Scaricatore di Porto! E si tirava su la lampo! Robby infilò la testa da dove era uscito Scaricatore e in fondo, su un materasso lercio c’era Sedici Anni immobile, con la testa contro il muro e le mutande a metà gamba. (Ma che scopano tutti stasera?).
Robby entrò e si avvicinò a Sedici Anni. La guardò. Le toccò la punta del piede con la scarpa: “Oh. Oh, ci sei o sei morta?”. Sedici Anni sollevò le palpebre e rantolò qualcosa.
“E’ fatta” pensò Robby, “fatta come un cocomero”. La stronzetta se ne stava lì a gambe larghe con le mutande calate e la fichetta al vento. C’erano tracce di sperma sui peli e sulle cosce.
Robby si sedette accanto e la guardò. Non sapeva se provare schifo o eccitazione. Si accese una paglia e fumò in silenzio. Quando fu stufo di avere accanto un sacco floscio si mise in ginocchio, l’afferrò per le ascelle e la mise seduta.
Leggera protesta di Sedici Anni.
“Sta zitta, stronza” disse raddrizzandole la testa. Le scostò i capelli dal viso. Una striscia di bava le era colata giù dalla bocca sul mento. Robby diede l’ultimo tiro alla paglia e spense il mozzicone sul rivolo di saliva. Il mozzicone sfrigolò e Sedici Anni emise un grido soffocato, cercò di alzare una mano per proteggersi ma Robby le mollò uno schiaffo.
Ad un certo punto sentì qualcosa che gli si allargava sotto le ginocchia e lo bagnava. Oh, cazzo! Cazzo! Cazzo! Quella troia schifosa si stava pisciando addosso! Quella puttana stava pisciandosi sotto e lui c’era proprio sopra!
“Stronza!”
Si alzò di scatto e le mollò un calcio nello stomaco. Sedici Anni emise una specie di grugnito e neanche a dirlo vomitò. Robby non poteva crederci. Quella deficiente se ne stava lì seduta pisciarsi e vomitarsi addosso senza fare una piega. Un animale. Sembrava un’animale con quei rantoli soffocati e quei sussulti. A Lele non sarebbe mai successo!
Robby incrociò le braccia e aspettò che la smettesse. Il tanfo si era fatto insopportabile almeno quanto lo schifo, ma nonostante tutto lui non le aveva tolto gli occhi di dosso. Vedere quella cretina che poco prima aveva fatto tanto la figa umiliarsi in quel modo glielo aveva fatto diventare duro. Quella stronza era in suo completo potere.
Strappò una vecchia tenda unta e bisunta dalla finestra e la ripulì al meglio. Poi le tolse la camicia e il reggiseno e li gettò in un angolo. Le sfilò le mutande e la gonna impregnate di urina. Si tolse la maglietta e le pulì i residui di vomito dalla faccia e dal resto del corpo. Poi la asciugò in mezzo alle gambe.
Sedici Anni intanto sembrava essersi ripresa. Muoveva la testa e cercava di dire qualcosa.
“Cazzo c’è?” disse Robby.
Sedici Anni si passò una mano sulla fronte, spalancò gli occhi e quando si rese conto di essere completamente nuda davanti a un estraneo si rannicchiò e con le mani cercò di coprirsi.
“Cazzo fai? Adesso ti vergogni?”. Robby si inginocchiò di fronte a lei e l’afferrò per i capelli. La stronza gridò e lui le mollò un pugno, quella gridò ancora più forte e lui le mollò un altro cartone, poi preso dal panico estrasse il coltello e in zero secondi le tirò fuori la lingua e gliela tranciò.
Cazzo!
Di netto.
Rapido.
Preciso.
Una valanga rossa e vischiosa schizzò ovunque. Sedici Anni si portò le mani alla bocca, gli occhi fuori dalla testa e un casino di sangue che le colava tra le dita, giù dal mento, lungo il collo. Ma nonostante tutto quella stronza cercava ancora di gridare. Robby cominciava ad averne abbastanza così la tirò per i piedi giù dal materasso le ficcò la maglietta sporca in bocca, le bloccò un braccio a terra con un piede e con l’altro cominciò a pestarle il polso finché non sentì le ossa scricchiolare e cedere.
Adesso non gridava più.
Gli occhi di quella cretina si erano così riempiti di lacrime che i bulbi oculari sembravano annegare. Robby le girò attorno e le fracassò anche l’altro polso.
Vista dall’alto sembrava un cristo in croce. Pietrificata dal dolore, stremata ma ansimante. Proprio come nei film.
Robby la guardò contento. Forse troppo. Pensò a Lele e ai suoi occhi. Si avvicinò alla finestra e guardò la propria immagine riflessa nel vetro. Quel poco che riusciva a intravedere non gli sembrava affatto l’espressione di Lele.
Fanculo.
E non si sentiva affatto sereno e compiaciuto. Si sentiva eccitato e fiero, non sereno e compiaciuto. E nemmeno appagato e soddisfatto. Sentì la rabbia bruciargli le tempie.
Lui voleva continuare, voleva scoparsela quella tipa, non andarsene via con quell’espressione da pazzo deficiente come Lele, voleva fottersela e magari farla fuori, lentamente, piano, piano, non andarsene via, non andarsene via perché lui non era affatto appagato... Cazzo! Cazzo! Cazzo!
Adesso era furioso. Frustrato e furioso.
Tornò verso Sedici Anni ancora immobile e le mollò un calcio su un fianco. Lei grugnì contorcendosi appena. Poi si sbottonò i jeans, tirò fuori il suo cannone duro, caldo e rigido, s’inginocchiò, allargò le gambe di quella puttana schifosa ma appena glielo cacciò dentro venne subito. A quel punto Robby si sentì un fascio di nervi pronto a esplodere. Avrebbe voluto gridare. Avrebbe voluto gridare di rabbia, di umiliazione, di odio.
Invece si mise a piangere. Come un moccioso. Come uno stronzo moccioso di merda.
Tirò fuori il suo cazzo moscio e pianse. Non riusciva più a fermarsi. E più piangeva e più si rendeva conto di quanto Lele fosse diverso da lui. Fanculo, fanculo, fanculo...
Afferrò il coltello con due mani e lo piantò una, due, tre volte nel ventre di quella troia buona nemmeno per scopare. Il sangue gli schizzò in bocca e negli occhi e lo nauseò. Le squarciò la pancia e il fetore di budella immerdate gli provocarono un conato di vomito che gli raschiò la gola. Vomitò e pianse come uno stronzo, come un fottuto stronzo, a quattro zampe e col cazzo flaccido.
Gli sembrò di impazzire. Pensò a Lele e ad Alex e li maledisse, maledisse loro e il loro fottuto sguardo, i loro fottutissimi occhi, quel confine che lui non avrebbe mai varcato... sereno e compiaciuto...appagato e soddisfatto... fanculo, fanculo, fanculo...
Poi, all’improvviso si calmò. Così. Come se niente fosse.
Smise di piangere e si alzò.
Si asciugò le lacrime. Si pulì la bocca e si riabbottonò i jeans. Fissò pensoso quella miscela di intestini, vomito e carne morta.
Forse aveva sbagliato qualcosa. Doveva per forza aver sbagliato qualcosa. Magari aveva avuto troppa fretta e aveva fatto casino, si era fatto prendere dall’ansia e aveva fatto casino, oppure...
La calma gli si allargò attorno a macchia d’olio e gli impregnò le viscere.
...oppure semplicemente non gli bastava, magari lui aveva bisogno di qualcosa di più, magari i suoi occhi esigevano di più... magari i suoi occhi...
La calma lo sommerse tutto e una lucida consapevolezza gli illuminò la mente. Fu un lampo, un flash, rapido, accecante, totale. Magari i suoi occhi esigevano di più...
Adesso sapeva cosa fare.
Corse alla finestra e si guardò nel vetro. Guardò i suoi occhi. Gli occhi di Lele e gli occhi di Alex. Adesso sapeva cosa fare.
Sollevò il coltello e senza smettere di guardarsi, lento e tranquillo, sereno e appagato, si recise la gola.
E finalmente, prima di crollare a terra li vide. Quegli occhi, quelli di Lele e di Alex lui li aveva visti. Un guizzo appena. Ma li aveva visti.
O almeno così gli era parso.
(inedito)
L'autore: Deborah Gambetta

Deborah Gambetta è nata a Torino nel 1970 e vive a Massa Lombarda, in provincia di Ravenna. Studia Lettere Moderne all’Università di Bologna, ha scritto alcuni racconti ancora inediti e pratica body building a livello dilettantesco. Sta scrivendo un romanzo dal titolo “Fratelli (e) Amanti”.


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