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Gianfranco Nerozzi
Viene il Santo (racconto)
Note biografiche

Viene il Santo

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Gianfranco Nerozzi


     Contemplando l'immobile perfezione della scena creata, Prospero fa danzare il pennello definendo meglio le curve dei lineamenti, dà qualche ritocco con la spatola, passa un dito sui bordi slabbrati delle ferite. È tutto così sconvolgente.
     Come un frammento di tempo, pensa, qualcosa che non smette di sanguinare, il colore di un fiore dimenticato.
      Adesso che ha concluso il lavoro si sente stanco, privo di forze, povero di luce.
      Cercando d'ignorare il dolore che si sta risvegliando nella sua testa, alza lo sguardo e si sposta indietro lentamente: per valutare meglio l'effetto visivo. Assalito da un improvviso serpeggiare di brividi lungo la schiena, fissa con una certa emozione la Trebbiatrice addossata alla parete: un marchingegno di ferro e di legno di due metri per quattro. Non è stato difficile trovare proprio quella.
     La stessa che ha martirizzato il Santo.
      La tenevano in un magazzino giù alla Fossa, tutta piena di ruggine e di tarli. E lui era riuscito a portarsela via per due soldi. Poi l'aveva fatta collocare nella sala grande della mostra e ne aveva collegato le cinghie a un motore per renderla perfettamente funzionante, pronta alla bisogna. Le tracce di sangue (del Santo!) non si vedevano più, figuriamoci: erano passati vent'anni... però c'erano, lui lo sapeva; perché le macchie di sangue non scompaiono mai del tutto.
      Distogliendo gli occhi dal macchinario, «Cristiddio» grugnisce, stropicciandosi gli occhi con tutt'e due le mani. Il dolore alla testa, adesso, è cosi forte da appannargli la vista, così si versa in bocca cinque o sei compresse d'aspirina e se le sgranocchia come caramelle, ignorando il saporaccio, poi recupera dalle tasche della giacca la boccetta d'estratto di Belladonna e la scuote, e si diverte un mondo ad osservare le bollicine su quel liquido verdastro; i cabalisti la chiamano 'La Mano della Gloria' e ne temono il potere soprannaturale; lui la usa per moltiplicare l'effetto degli analgesici, perché la sua testa se ne sta andando in pappa e il dolore che prova è così intenso che, se desse retta al suo istinto, prenderebbe un apriscatole per scoperchiarsi la teca cranica e strapparsi via quel maledetto grumo di cellule avariate abbarbicato alla sua cervice come una sanguisuga.
      Tolto il tappo dalla bottiglietta, beve un sorso e sorride: solo una lieve, appena percettibile smorfia adagiata sul fiore delle labbra.
      Questa sera, pensa, se Dio vuole sarà tutto finito.

      Il riverbero spettrale della musica in sottofondo - una fusione distorta di accordi in minore, grida di dolore, sussurri soffocati... - investiva la folla di mostri avvolgendola in un respiro mortuario, strisciante, come di anime morte che si sfiorano. L'orda di creature si riversava all'interno del labirinto, tra smorfie di zanne, ed artigli snudati.
      Schiacciato in mezzo alla calca, il commissario Ruben Costa, con una maschera da Dylan Dog sulla faccia, si guardava attorno chiedendosi per quale motivo al mondo gli era saltato in testa di recarsi in quella gabbia di pazzi furiosi. La mattina gli era stato recapitato nel suo ufficio un invito spedito da chissà chi per assistere quella sera stessa alla presentazione di una fantomatica mostra personale di un certo Prospero Germinara, il famoso mago degli effetti speciali, in occasione della festa di Halloween organizzata nell'ambito del Festival horror, al palazzo delle fiere. Quell'invito lo aveva incuriosito, certo, ma non più di tanto. Perché non si faceva vedere a casa da almeno tre giorni e aveva le palle piene, proprio in tutti i sensi. Così aveva progettato di passare una seratina in famiglia: sgabannate senza ritegno con tutti gli annessi e i connessi, tanto per intenderci. Una volta tornato a casa dal servizio, però: sorpresa sorpresa, Laura non c'era - di certo se ne era andata fuori con qualcuna delle sue amichette del cazzo chissà dove - dolcissima che non era altro. Dopo aver scartato l'idea di andare all'osteria da Zallo a prendersi una ciucca colossale, si era deciso per quel cazzo di festa, alla faccia di sua moglie.       E adesso se ne stava là, truccato come uno stronzo a chiedersi freneticamente: ma si può sapere cosa ci sto a fare qua?
      Incalzato da una sfilata di demoni urlanti, Costa percorse il labirinto fino a raggiungere lo spazio dedicato alla mostra di quel (ma come cazzo si chiama pure?) mago degli effetti speciali.
      La scena, battezzata da fasci di luce rossa molto suggestivi, era intitolata: "Respiro di un fiore morto da una gola troncata", e rappresentava, con un realismo a dir poco impressionante, una sequenza di bambine uccise con le espressioni che mutavano seguendo una sorta di crescendo agonico. Costa, visibilmente scosso, si sollevò la maschera per vedere meglio tutte quelle bambine straziate (perché c'era qualcosa di familiare in quella scena) , e le passò in rassegna una per una, e quando si trovò di fronte all'ultima si accorse di un particolare che sul momento non aveva notato. Il cuore prese a battergli più forte, mentre un getto di liquida consapevolezza eruttò dalla sua mente salendo verso l'alto per poi calare improvviso e solidificato, simile a un colpo di mannaia, al centro esatto dei suoi pensieri; e lì cercò di farsi largo, di guadagnare spazio; la piccola fessura partorita da quel colpo, si allargò rapidamente assumendo l'aspetto di un'enorme ferita sanguinante e incurabile. Uno squarcio che pulsava e mostrava, dalla sua profondità più segreta: il petalo delicato di un fiore.
      Un fiore che era un ricordo.
      Il ricordo di un autunno lontano lontano.

     ... la piccola Giacomina riversa sul pavimento: l'aria inerte di un pupazzo messo lì per scherzo. La cucina impregnata dall'odore della legna bruciata, del mosto, del sangue. Moscerini dappertutto.
     Sul ripiano della credenza bruciano le candele davanti ai crisantemi e alle offerte propiziatorie per la festa di ognissanti, ghirlande d'aglio e paramenti sacri appesi alle pareti. Sopra a un tagliere: i tortellini messi lì a seccare, in attesa del pranzo del giorno dopo, spruzzati di goccioline rosse...
     E io che non so cosa fare, con quella divisa d'appuntato dei carabinieri troppo stretta nelle spalle e i foruncoli sulla fronte e una 'stecca' invidiabile di meno tre al congedo.       Cercando di non perdere la calma, guardo il padre della bambina ma siccome non ce la faccio proprio a sostenere il suo sguardo disperato, lo invito a lasciare la stanza, per favore; e lui ubbidisce prontamente ed esce, muovendosi a scatti, come un automa, mi fa tanta di quella pena; cinque anni prima, proprio il 31 d'ottobre, sua moglie era morta dando alla luce Giacomina e adesso se ne era andata anche la figlia in quel modo assurdo e proprio il giorno del suo compleanno.
     Rimasto solo, trovo la forza di chinarmi sul cadavere
, tanti auguri piccolina, e guardo quello che le hanno fatto col cuore che mi pulsa troppo forte. Respirando in fretta, cerco di sputarli via quei battiti, ma dopo diversi tentativi mi resta solo un pugno di vuoto al centro del petto: come un sasso, pesante e insopportabile. In poche parole: non so cosa fare.
      Il maresciallo Lazzari se ne è andato cinque giorni prima con un bel infartino lasciandomi nelle pesche, per non dire nella merda. Nel giro di un paio di giorni avrebbero dovuto mandare un grado superiore, almeno così avevano assicurato quelli del comando Legione, giù in città... Sì, campa cavallo! Ancora un po' ed è passata una settimana e nessuno si è fatto più vivo e poi, oltretutto, adesso è sopraggiunta questa complicazione.
      Chiudo gli occhi, li riapro. La bambina è ancora là, non è scomparsa, e ha la gola così aperta che magari si riesce a distinguere persino il luccichio di qualche vertebra in fondo. E infatti, guardando bene, qualcosa s'intravede.
      Vincendo il ribrezzo, cerco di farmi largo rigirando le dita, producendo rumorini acquosi che mi fanno venire il voltastomaco. Fino a quando non riesco ad estrarre.
      Mentre fisso, al colmo dello stupore, la piccola corolla di corimbi bianchi, mi domando per quale motivo dentro alla gola di Giacomina Germinara l'assassino aveva posato un fiore da morto.

      Lo stesso tipo di fiore che adesso stava spuntando dalla gola scannata dell'ultima statua che si trovava davanti ai suoi occhi in quella mostra di quel...
      Germinara! ecco dove avevo già sentito quel nome.
      Prospero Germinara era il fratello della povera Giacomina. Sul momento non aveva collegato.
      Però solo io sapevo di quel fiore... Perché lo avevo riposto con cura nel fazzoletto con l'intenzione di consegnarlo in seguito al medico legale, ma poi era successo quello che era successo e il caso era stato chiuso in fretta e furia e il fiore era andato a finire nel cesso, come tutto il resto.
      Quindi nessun'altro poteva sapere...       Eh no, caro mio,
saltò su una vocina da dentro la sua mente, un altro lo sapeva, (un altro lo sa!): il padrone della mano che ha aperto la gola a una bambina di cinque anni posandole direttamente sulla carne viva del gargarozzo un crisantemo bianco, l'assassino. E già...
      Con gli occhi della mente Costa ritornò a quel maledetto giorno del 69.
     ... dopo aver riposto il crisantemo dentro alle tasche della divisa, ero uscito fuori attirato dalle voci concitate delle persone accorse dopo la notizia dell'omicidio. Il fratello di Giacomina, davanti alla folla radunata al centro dell'aia, gesticolava con ardore e gridava: «È stato il Santo, è stato lui che ha ucciso mia sorella!»
      Il Santo era un poveraccio che viveva in una stalla, subito fuori dal paese. Un ritardato mentale con la fissa della religione che si credeva un emissario del Signore e recitava i salmi a memoria e si bucava le palme delle mani con dei chiodi per fingere di avere le stigmate. I giorni di festa comandata, girava di casa in casa per accettare qualche offerta, mostrava le palme insanguinate e ti raccomandava alla Grazia del Signore e allora gli si dava del pane secco, qualche buccia di salame, quando gli andava grassa un frutto. Alcuni lo chiamavano al Santan, altri, soprattutto i ragazzini, preferivano Santamerda; la maggior parte, semplicemente: il Santo. Un capro espiatorio perfetto.
      È stato lui, è stato il Santo, è stato il Santo...
      Tutta quelle persone indiavolate, coi falcetti impugnati, i bastoni, i forconi... Avevano improvvisato una processione punitiva, lo avevano stanato. Lo avevano inseguito fino nel campo del Pasini. E lui era salito sopra alla trebbiatrice in funzione per sfuggire al linciaggio, e da là in cima aveva contrattaccato con un paio di preghiere, poi qualcuno aveva cominciato a tirargli delle sassate e lui era stato colpito alla testa ed era caduto dentro all'imbocco di entrata dei covoni di granoturco. I martelli avevano preso a maciullarlo. E nessuno si era preso la briga di andare a spegnere il trattore per fermare la macchina.
      Gli schiocchi delle ossa che si rompevano, il sangue che eruttava dagli imbocchi... Costa era giunto sul posto con la Beretta 34 spianata, troppo tardi. Molte delle persone assiepate, assistendo al martirio del Santo, avevano smorfie di ribrezzo dipinte sulla faccia molto simili a dei sorrisi.

      A mezzanotte in punto, il sipario si era alzato. Ed era comparsa la trebbiatrice.
      E Costa si era ritrovato a galleggiare in una dimensione sospesa fuori dal tempo e dallo spazio.
      Ecco, pensò, mancava solo lei, adesso ci siamo proprio tutti...
      Sulla targhetta il titolo dell'opera: 'Viene il Santo'. Ed era così assurda: tutta quella carnevalata...
      Prospero Germinara, in cima alla macchina con le braccia aperte sollevate al cielo come nella parodia di un gesto benedicente, riceveva applausi dalla folla di mostri. Costa lo squadrò attentamente, cercando di riconoscere il bambino di allora. Ma niente da fare, era passato troppo tempo. Facendo un rapido calcolo considerò: dovrebbe avere poco più di una trentina d'anni adesso, però sembra mio nonno. La faccia di Germinara, infatti, era scarna, segnata dalla stanchezza, sembrava quella di un teschio. Il commissario infilò la mano destra sotto al giubbotto per afferrare il calcio della pistola; poi cercò di avvicinarsi facendosi largo fra la folla. Non sapeva ancora come comportarsi. Se arrestarlo, sparargli un colpo in testa o cosacazzo...
      Fu in quel momento che il motore collegato alla Trebbiatrice si accese.

      Ricordava di aver letto qualcosa riguardo alla Belladonna in un dossier sulle sette sataniche. Doveva essere, se non ricordava male, una sorta di allucinogeno vegetale che veniva usato per richiamare gli spiriti dei morti. Con un sospiro, Ruben Costa ripose la boccetta dentro alla busta che conteneva gli oggetti personali di Prospero Germinara, si accese una sigaretta e aspirò il primo tiro con forza e con passione. La gamba destra prese a tremargli, come tutte le volte che si sentiva particolarmente nervoso. Aveva passato tutta la notte in bianco in un bagno di sudore neanche avesse la febbre, e si sentiva uno schifo. Per quanto ce la stesse mettendo tutta, non riusciva a togliersi dalla mente il ricordo di quello che era successo. Soprattutto continuavano ad riecheggiargli nella testa tutti quei rumorini secchi: gli schiocchi delle ossa di Germinara che si sbriciolavano sotto l'azione dei martelli e degli stacci. Un momento prima di buttarsi dentro all'imbocco della trebbiatrice, Prospero aveva guardato nella sua direzione e aveva fatto una faccia... come se fra tanta gente fosse riuscito ad individuare proprio lui, e mentre lo fissava, nei suoi occhi campeggiava un sorriso che, senza esagerare, si sarebbe potuto definire: smagliante! Dava un po' l'idea di essere... come dire? appagato.
     ... perché si era scaricato, come dopo una eiaculazione, o una cagata...
      Il patologo aveva trovato nel suo cervello un tumore grande come una cipolla - doveva avere sì e no due mesi di vita, forse meno - probabilmente per quella ragione aveva organizzato quella rievocazione/confessione. Per spurgarsi...
      Aperto il cassetto della scrivania, Costa recuperò la fiaschetta di ricostituente al malto che teneva sempre lì: per ogni evenienza, e la imboccò a collo. E ne aveva bisogno. Perché nel profondo della mente stava rivedendo, ancora una volta, per la centesima volta: il 'ballino' di carne trita sputato dalla bocca della trebbiatrice che galleggia in una melassa densa di liquidi ghiandolari. Il pubblico di mostri, con gli occhi ardenti ed eccitati, aveva applaudito di fronte a tanta plastica perfezione. Mentre lui aveva vomitato anche l'anima dentro alla maschera di Dylan Dog.
      Riposta la fiaschetta, riprese a frugare fra la roba di Germinara. Quando trovò il crisantemo, se lo avvicinò alla faccia come per cercare di assorbire l'aura di terrore che pareva irradiarsi dai suoi corimbi profumati.
      E continuò a guardare quel fiore senza sbattere le palpebre, fino a quando gli occhi non gli si colmarono di lacrime sdoppiando l'immagine, triplicandola, trasformandola in qualcosa di contorto, di malefico.
      Un vertice di spettrali bisbigli, intrappolato nella sua testa, prese a sussurrare: viene, viene il Santo...
      Il necroforo ripone i ferri, si toglie i guanti e il camice lordo di sangue e lancia un sospiro. Ha lavorato due ore buone per riuscire a ricomporre gli 'avanzi' del morto. Ci ha dato dentro con martello e scalpello e poi con ago e filo e alla fine il risultato c'è stato. Per lo meno si può guardare la salma senza mettersi ad urlare. Prima di uscire dalla camera mortuaria, si gira di scatto per fissare il volto del fu Prospero Germinara. Perché gli è parso di cogliere con la coda dell'occhio un movimento nei lineamenti fra una cucitura e l'altra.
      Ma: tutto fermo tutto immobile, naturalmente...
      Facendo spallucce gira la maniglia della porta e varca la soglia con urgenza. Perché sta avvertendo qualcosa... Un odore particolare che gli ricorda una scena della sua fanciullezza: quando andava al cimitero il giorno di ognissanti e sua madre cambiava l'acqua nel vaso di fronte alla tomba di suo padre: puzzo di fiori marciti, proprio così...
      Mentre percorre il piccolo corridoio che conduce agli spogliatoi, alza il braccio per controllare l'ora e si dà dell'idiota. Ha dimenticato l'orologio, maledizione. Così torna sui suoi passi senza smettere di darsi dell'imbecille per la sua sbadataggine.
Entrato nella camera mortuaria, si tappa subito il naso perché quell'odore... Non se ne è andato, anzi... È molto più forte adesso, da non resistere.
      Trattenendo il fiato va a recuperare l'orologio.
      Poi si gira verso il tavolo scanalato.
      E comincia ad urlare.


(inedito)


L'autore: Gianfranco Nerozzi

Gianfranco Nerozzi è nato a Bologna nel 1957, dove vive e lavora. E’ passato attraverso numerose esperienze artistiche, fra cui la pittura e la musica: autore e compositore, ha militato per più di dieci anni in un gruppo rock dell’area bolognese. Appassionato di culture orientali, praticante lui stesso di diverse discipline di combattimento, sta preparando uno scritto sulla filosofia del karatè. A parte tutto ciò lavora nella pubblica amministrazione. Nel 1990 entra tra i finalisti del premio Tolkien con il racconto ‘In fondo al nero’. Nel 1991 pubblica il suo primo romanzo, lo splatterpunk ‘Ultima pelle’, per le edizioni Eden. Nel 1992 si classifica secondo al XII Premio Tolkien con il romanzo ‘Cry Fly’ ed entra a far parte della World SF, l’associazione internazionale che riunisce i professionisti che lavorano nel campo del Fantastico. Nel 1993, una versione riveduta e ampliata di qualla sua prima storia d’esordio esce come ‘Le bocche del buio’ nella microcollana ‘I piccoli libri dell’horror’ della Polistampa di Firenze. Dalla pubblicazione de ‘Il grande specchio’ sull’antologia Plot 2 edito dalla Metrolibri (1991), suoi racconti dell’orrore sono apparsi su diverse pubblicazioni: Achab, Eternauta, Diesel. Ha partecipato alla raccolta ‘Giallo, nero e mistero’ edita da Stampa Alternativa e all’antologia ‘Sospeso’ (Entronauta).


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