“Cominciò con un ometto che si presentò sulla scena con la faccia infarinata e un’aderente calzamaglia nera: tipico abbigliamento da pic -nic. L’ho indossata anch’io per un pic-nic in Central Park lo scorso anno e ad eccezione di alcuni giovani dissidenti che la presero come un’esibizione per evidenziare le mie forme, passai inosservato. Il mimo stava ora stendendo una coperta da pic-nic e subito entrai nella mia solita confusione. Egli stava stava stendendo la coperta da pic-nic oppure stava mungendo una capretta. Poi si tolse studiatamente le scarpe, solo che non ero sicuro che fossero le scarpe, perché ne bevve una e spedì l’altra a Pittsburgh. Dico “Pittsburgh”, ma in realtà è difficile mimare il concetto di Pittsburgh e, quando ci ripenso, credo che quello che stava mimando non fosse affatto Pittsburgh ma un uomo che cercava di far passare un carrello da golf attraverso una porta girevole, o forse due uomini che smontavano una stampatrice”. Così Woody Allen, in uno dei suoi racconti più rabbiosi e consolatori per i cinefili di tutto il mondo. L’oggetto di scherno è un mimo, la “maschera” per eccellenza. Ogni volta che se ne vede apparire uno sullo schermo (ormai ci provano solo i cineasti esordienti, i dilettanti pieni di buone intenzioni) si ha la fortissima tentazione di presentargli una P.38. C’è un’insofferenza ontologica, nel cuore di ogni amante del cinema (e forse del cinema stesso) verso tutto ciò che mira, per principio, ad essere ambiguo per rivelare i chissà quali misteri che si celano sotto la superficie delle cose. Refrattario alla metafora e al simbolo, il cinema è moderno per natura. E ha la presunzione di essere intelligente. il cinema è arte della superficie e dell’evidenza, il che non significa che sia superficiale o che il significato di ogni film sia evidente, tutt’altro. La questione ci porterebbe lontano ed è meglio interromperla qui. Ma il preambolo può aiutare a capire perché il cinema non preveda, per statuto “maschere”, ma solo oggetti che si mettono sulla faccia o sul corpo per ottenere un determinato aspetto. Al cinema una maschera è una maschera. La più ovvia è quella recentissima di The Mask. Qui l’oggetto, di derivazione fumettistica, serve in principio a dare un attimo di tregua all’isteria del volto di Jim Carrey. Poi, come un’appendice mcluhaniana, l’orpello finisce per potenziarne le proprietà elastiche (il precedente di Gommaflex è lampante), ma dall’uno all’altro si passa sempre senza soluzione di continuità. Per contiguità di titoli vale la pena citare Mask di Peter Bogdanovich, uno dei film più misinterpretati della storia. E’ vero infatti che, a livello diegetico, il titolo si riferisce al protagonista, un ragazzo affetto da una malattia ossea che gli deforma il volto fino a renderlo del tutto simile a uno stregone masai durante la cerimonia per la prosperità. Ma la vera maschera, quella che buca lo schermo, è quella di Cher, già allora (1985) rifatta dalla testa ai piedi e ricomparsa agli occhi degli americani in tutto e per tutti identica a quella scomparsa a metà degli anni ‘70. Per amor di patria è meglio tacere si La Maschera di Lorenza Infascelli (?), così come su tutte le insostenibili scene di mascheramento, trucco e rimozione del trucco con cui alcuni grandi (Bergmann e Fellini in particolare) sono soliti ornare i loro film quando si trovano a corto di idee e di moneta. Non è male, invece, la maschera della morte del Settimo Sigillo, seguita a ruota dal velo che nasconde il baffo di Corman nella Maschera della morte rossa (a proposito, ne esiste una versione in bianco e nero, su pellicola, che aderisce perfettamente all’idea stessa del film mascherato). Quello tratto da Poe è un film esemplare: sotto la maschera cosa si nasconde? La faccia del protagonista, of course. In più c’è anche un ballo in maschera come quel formidabile Mr Arkadin che nessuno, neanche per un istante, ha mai dubitato potesse essere un Orson Welles. Anche perché ce lo racconta lui stesso in un incipit folgorante durante il quale tutti i personaggi ci vengono presentati sotto travestimenti discordanti. Tranne lui, Mister Arkadin. D’altra parte nessuno può dire di avere mai visto sullo schermo il vero volto dell’omone di Quarto Potere: è storia vecchia che a Welles non piacesse il proprio naso e non c’è film in cui non l’abbia ritoccato o modificato in modo significativo. Se il ballo in maschera più esaltante che si ricordi è certo quello che porta il protagonista di Skin Deep a recarsi (errore di date) vestito da Aladino ad una seriosissima serata in smoking, il tema ricorrente pare essere, invece, quello del sotto alla maschera niente: succede al nemico di Batman, il Jocker, che grazie ad una cosmesi d’avanguardia replica in continuazione il proprio ghigno; succede a Darkman che, per novantanove minuti per volta, può indossare la propria vecchia faccia andata perduta. Oppure all’Uomo Invisibile che, sempre grazie ai cosmetici, riesce a ricreare una fragile parodia della propria immagine. Anche il Fantomas degli anni ‘60, quello inseguito da Louis de Funès, l’erede della grande tradizione dei Fantomas e Musidora degli anni venti era solito indossare pellicole ultrasottili che gli consentivano di assumere l’identità di chiunque. Sotto ogni pellicola c’era un’altra pellicola e il suo vero volto resta un mistero irrilevante (quasi come sapere quale, tra i 12.000 cloni, è il vero Uomo ragno). Fantomas ha un corrispettivo attoriale in Peter Sellers, capace di impersonare continuamente se stesso mentre si infila, spesso nello stesso film e talvolta nella stessa inquadratura, in una successione parossistica di travestimenti. All’estremo opposto ci sono Superman e Buster Keaton. Il secondo è la maschera per eccellenza: l’espressione cristallizzata, il lineamento imperturbabile che attraversa, indaffarato (concentrato) come un equilibrista, l’entropia dell’universo e la sua minacciosa incombenza. Il primo racconta la trasparenza: Superman è il solo super eroe costretto ad impersonare un poveraccio per fare una vita decente. Non è come Jeeg Robot, non si trasforma e non indossa costumi o armature. Superman, al contrario, per agire è costretto a togliersi i fessi abitucci di Clark Kent e gli occhialoni spessi che alla lunga, finiranno per compromettere la supervista. Questo spiega perché Superman non abbia bisogno di maschere: Superman è Superman e di chi sia il banalissimo Kent non frega assolutamente nulla a nessuno. Ma in un’eventuale classifica le maschere che preferiremmo sono altre: quella fallica di Alex in Arancia Meccanica (rivista pari pari nel sexy shop della Magic America), quelle dei presidenti americani indossate dai rapinatori di Point Break (che vantano già numerosi tentativi di imitazione), oppure quella di Groucho Marx, indossata da Groucho Marx in alcuni film irresistibili e dai genitori di Woody Allen in Prendi i soldi e scappa. La preferita di chi scrive resta comunque quella del protagonista di Venerdì 13, un mascherone da portiere di hockey, che sfiora il dadaismo ed è perfettamente gratuita perché l’anonimo killer non avrebbe nessunissimo bisogno di mascherarsi: probabilmente fa il portiere di hockey. Resta il fatto che la maschera è talmente intrinseca al cinema da essere, in effetti, irrilevante: non è un caso che il film più perturbante della storia sia ancora Freaks di Todd Browning, nel quale lo scandalo è determinato proprio dall’assenza di maschera e di trucco. Quelle maschere buffe e spaventose sono facce. (inedito) L'autore: Giacomo Manzoli Giacomo Manzoli è nato il 24 dicembre 1968 a Bologna, dove vive. Laureato presso il DAMS, collabora con la cineteca comunale e l'università. Suoi saggi sono apparsi su "Cineforum", "Cinegrafie", "Garage" e "Fotogenia", rivista di cui è anche redattore. Un suo saggio è apparso nel libro "La bellezza interiore. Il cinema di David Cronenberg", curato da Michele Canosa (Le Mani, Genova '95). |
sommario | pagina precedente | pagina successiva | e mail | numeri precedenti | mystfest |