Il respiro dell'uomo che ha di fronte, filtrando dai bordi della maschera, produce un leggero sibilo. Nina lo guarda, e ascolta le sue parole. L'uomo parla adagio, e ha una bella voce calda e sensuale. Le siede di fronte e le racconta queste strane storie che hanno sempre qualcosa di sospeso, di irrisolto. Nina lo ascolta, e intanto si chiede come sarà il suo viso, dietro a quella maschera. Socchiude gli occhi, e lancia uno sguardo attraverso la camera. Al di là della membrana di luce gli sembra di vedere una figura in piedi, immobile. No, non una soltanto, eccone due, tre, una folla di sagome che si stagliano confuse oltre il sipario luminoso, come attori che si fanno avanti sul proscenio, alla fine di uno spettacolo. Il signor Pirandello si passa una mano davanti agli occhi, e si sfrega le palpebre, per scacciare quell'allucinazione. Ma non c'è niente da fare, le sagome sono ancora lì, e sembrano fissarlo. Si chiede chi siano, poi, all'improvviso, capisce. Quello che ha riconosciuto per primo è stato Mattia Pascal, con il suo occhio strabico e la barba rossa, e subito dopo si è accorto che accanto a Pascal c'era Moscarda, con il suo naso un po' storto che aveva innescato la catastrofe. E assieme a loro gli altri. Berecche, Laudisi, Liolà, il capocomico, il padre, la madre, la figliastra, e anche Chiàrchiaro, lo jettatore. Il signor Pirandello è stupito. Pensa: starò senz'altro sognando. Sarà colpa del caldo, del troppo lavoro, o della tensione che mi mette in corpo mia moglie, con quel suo brutto carattere. Ma le sagome restano là di fronte a lui, inquietanti, velate da quella lama di luce radente, e osservandole meglio ha la confusa impressione che uno di loro gli assomigli. Strizza gli occhi, per cercare di vedere più chiaramente. Ma sì, è proprio così: i tratti del volto di Mattia Pascal assomigliano ai suoi. La fronte soprattutto, e la punta a V della barba. E anche Moscarda gli assomiglia, a ben guardare. Quel naso che pende un po' a destra, le sopracciglia ad accento circonflesso, e le orecchie una più sporgente dell'altra. E tutti, tutti, accidenti a loro, gli assomigliano in maniera impressionante, perfino Liolà e il capocomico, perfino Chiàrchiaro, lo jettatore. Il signor Pirandello è frastornato. Cosa gli sta capitando? E' un incubo, un delirio, o cos'altro? Decide di ignorare quella folla di sosia importuni, e di alzarsi. In fondo è già ora da un pezzo. Butta a fatica le gambe giù dal letto, e infila i piedi nelle pantofole di panno. Volta le spalle ai personaggi che continuano a fissarlo, cercando di convincersi che quando ritornerà dal bagno, dopo essersi rinfrescato, non saranno più là. La maniglia di ottone è fresca sotto il suo palmo sudato. Avanza adagio verso il lavabo, apre il rubinetto, si sciacqua le mani, e il contatto con l'acqua lo fa già sentire un po' più tranquillo. Ma quando alza gli occhi, e scorge i tratti del volto che lo sta fissando dallo specchio, l'angoscia torna ad assalirlo in maniera ancora più violenta. Gli manca il respiro, e la testa prende a girargli, da tanto è sconvolto. Le sue mani si aggrappano al bordo del lavabo come all'ultimo sostegno sull'orlo di un precipizio. Nina si è girata per vedere a chi apparteneva la voce, e ha visto una camicia con jabot, una figura alta e scura, un cappello a cilindro, una maschera di cartapesta bianca, dal profilo verticale e stagliato. Gli occhi della maschera erano occhi dolenti e tristi, e forse per questo Nina si è fidata di quell'uomo. «Sì,» gli ha risposto. «In effetti mi sono perduta.» «Vieni,» le ha detto allora lui. «Usciamo di qua.» Qualche tempo dopo, una sera di settembre del 1932, Buster ha appena terminato alcune riprese di Speak Easily, ed è riuscito a convincere una ragazza carina che ha incontrato per caso agli studios a cenare con lui. L'ha invitata in un famoso ristorante di Hollywood, un locale molto chic e costoso, grazie al quale conta di fare colpo sulla ragazza. Quel giorno ha cominciato a bere più tardi del solito, il primo bicchiere se l'è versato solo alle tre e un quarto di pomeriggio, durante una pausa delle riprese, quindi alle otto di sera non è ancora sbronzo. Forse appena un po' alticcio, ma questo gli tornerà utile per essere più disinvolto con la ragazza, e per riuscire a sedurla con successo. Non ha un piano preciso, in merito, ma quello che si propone è soprattutto di farla ridere. La sua tecnica, in fondo, è sempre quella, ed è anche la cosa che nella vita gli riesce meglio: far ridere la gente. Quello che non ha previsto, invece, è che anche la ragazza vorrebbe riuscire a far ridere lui. E quello che la ragazza non sa, è che Buster Keaton può fare tutto, ma non ridere in pubblico. «Su, Buster, fammi almeno un sorriso, o penserò che ti sto annoiando mortalmente!» «Tu non vuoi capire, baby, Buster non può ridere mai. Fa parte del personaggio.» «Sì, lo so, me l'hai già detto. Ma nemmeno un sorriso piccolo piccolo, giusto per farmi piacere? In questo modo finirò col demoralizzarmi.» Buster si guarda attorno preoccupato. Le persone agli altri tavoli non sembrano guardarlo, ma non si può mai dire. La sua faccia è troppo famosa, ormai, perché la gente non lo noti. «Ma sei sicuro che fosse lui?» «Stai scherzando? Credi che mi possa sbagliare con una faccia del genere?» «Hai sentito, cara? Jack, la scorsa settimana, ha mangiato allo stesso ristorante di Buster Keaton!» Buster riporta lo sguardo sul viso della ragazza. E' davvero molto carina, e Dio sa se vorrebbe farla contenta, ma il suo lavoro e la sua immagine rimangono sempre le cose più importanti. Quindi tenta di consolarla dicendo: «Non devi demoralizzarti, sciocchina. Sono io che devo far ridere, non tu.» «Dici così perché non mi trovi divertente.» «Ma non è vero! E' solo che non posso ridere, tutto qui.» «Non hai sorriso nemmeno con la barzelletta dell'elefante zoppo, e quella ha sempre fatto ridere tutti!» «Infatti è molto divertente,» dice Buster, riempiendosi di nuovo il bicchiere. «Già, ma tu non hai fatto una piega. Sei rimasto lì a guardarmi con quella faccia impassibile, neanche ti avessi raccontato la storia di una disgrazia.» Buster beve il suo scotch, e se ne versa subito un altro. L'ostinazione di questa ragazza lo mette a disagio. Se la serata continua così, rischia di trasformarsi in un fiasco. Gli piacerebbe sapere perché diavolo si è intestardita su questa storia del farlo ridere, accidenti a lei e a quel dannato contratto. Si accorge che la ragazza lo sta fissando con uno sguardo sempre più deluso. Guardandola negli occhi, può vedere con chiarezza il suo umore precipitare verso il basso, scivolando su grigie rotaie inclinate. E già gli sembra di sentire i commenti che scambierà con le sue amiche davanti alle vetrine dei negozi di abbigliamento. «Gesù, sei uscita a cena con Buster Keaton! E com'è andata?» «Vuoi sapere la verità, Margie? Una noia mortale!» Buster si chiede se per caso non abbia sbagliato a farla bere tanto. Era convinto che l'whisky l'avrebbe ammorbidita, e invece ha ottenuto l'effetto contrario. «Quindi niente da fare,» insiste lei. «Proprio non ne vuoi sapere di farmi un sorriso.» Buster resta a fissarla in silenzio, con le dita appoggiate al bicchiere. E' quasi tentato di farglielo, questo dannato sorriso, giusto per dare un taglio a questa storia, che sta cominciando a diventare seccante. La ragazza sembra irritata dal suo silenzio, e gli dice: «A quanto pare devo rassegnarmi. E' evidente che un grande attore come Buster Keaton è abituato a uscire con donne molto più divertenti di me.» Buster scola d'un fiato il suo bicchiere. Vorrebbe dire qualcosa, ma non sa cosa. All'improvviso si sente a terra. Si sente stanco e depresso e intrappolato dietro quell'espressione seria e malinconica che gli imprigiona la faccia come una maschera. La faccia di pietra che l'ha reso famoso, e alla quale in fin dei conti deve il suo successo. Infila due dita nel colletto della camicia, per allentare un po' la tensione della cravatta. La ragazza, adesso, si è accesa una sigaretta, e si sta guardando attorno distrattamente, come se di colpo avesse perso interesse alla questione. Buster pensa che forse, con un po' di impegno, riuscirà a raddrizzare la serata, e decide che gli ci vuole a tutti i costi un altro goccetto. La sua mano scivola sulla tovaglia in direzione della bottiglia di whisky. Vorrebbe solo che lui si togliesse la maschera, che le mostrasse il suo volto. Ma poi in fondo no, non è nemmeno questo che vuole. Non vuole capire, e non vuole sapere. Vuole solo restare ad ascoltare la sua voce, e quei suoi strani racconti di uomini e maschere, e riuscire a non pensare a quello che le succederà. Il corpo di Eduardo, sotto le lenzuola, non si vede, tanto è magro e prosciugato. Fa ancora abbastanza caldo, in questo ottobre romano, ma Eduardo ha un po' freddo, e si rende conto con un brivido che le coperte non possono proteggerlo da questa sensazione che sembra arrivare da dentro, da qualche punto imprecisato tra le ossa e la carne. Se mettessi in scena la morte di un grande attor comico, pensa, è proprio così che la allestirei: con questa penombra, questi vasi pieni di fiori mezzo appassiti, il rumore di una sveglia in sottofondo, e una maschera di Pulcinella sul comodino a fianco del letto. Perché la maschera di Pulcinella è il teatro, è la malinconia della vita, la risata, la fame, l'astuzia, il sapersi arrangiare. Perché Pulcinella è Napoli, e la commedia dell'arte. Pulcinella è triste, allegro, vitale, pieno di contraddizioni. Pulcinella è quella maschera posata sul comodino a fianco del suo letto. Eduardo piega la testa sul cuscino per guardarla, allunga la mano scheletrica verso il comodino. Il braccio sembra reggere a fatica la manica del pigiama. Le dita toccano la maschera, la sollevano adagio. Eduardo avvicina la maschera al suo viso, e gli sembra di guardarsi allo specchio. Non sono i suoi quegli zigomi sporgenti, quelle guance scavate, quei solchi profondi? Passa le dita fra le pieghe del cuoio. La maschera ha un odore speziato, di antico sudore rinsecchito, come il vecchio cinturino di un orologio da polso. Quanti visi hanno sudato dentro a quella maschera? Quante volte un attore ha riso e pianto e cantato con quella maschera addosso? Eduardo si sente stanco, ha voglia di chiudere gli occhi. Nella sua memoria, echi di risate e applausi, come dalle assi di un palcoscenico. Fruga con lo sguardo nella penombra della stanza, oltre la testata del letto, e i mazzi di fiori appoggiati sul comò gli sembrano sagome di spettatori che, in piedi, aspettino qualcosa da lui. Tenta di sollevare la testa per accennare un inchino. Non ci riesce. Un sorriso stanchissimo gli stira le labbra esangui. Qualcosa di impercettibile muta, nella geografia di solchi che attraversano il suo viso. Il suo viso segnato e sofferente: appena uno strato sottile di pelle modellata sulle ossa del cranio. Il viso affamato di Napoli e della commedia dell'arte. A Eduardo sembra di ricordare una battuta adatta a questa occasione, socchiude le labbra, ma subito dopo si accorge che la battuta gli è sfuggita di mente. Si sforza di ritrovarla, ma non c'è niente da fare: è svanita per sempre nei meandri della sua memoria ormai troppo piena, come un vecchio baule stracarico di oggetti di scena. Nina, senza nemmeno sapere perché, fa segno di sì. «Potrei anche dirti che ti amo, Nina,» continua lui, dietro quella sua maschera sulla quale è cristallizzata un'espressione di dolore che a Nina sembra ad ogni momento più straziante e insopportabile. «O che ti desidero. O che ti voglio uccidere. O che voglio farti felice. Ma queste sono parole, Nina. Non significano nulla. Appena pronunciate sono già appassite, hanno già perduto significato. Restano solo i gesti e le sensazioni, con il loro indecifrabile potere, impossibile da ridurre a senso, impossibile da spiegare.» Nina resta a guardarlo e non si chiede nulla. Fruga dentro di sé, ma non riesce nemmeno più a trovare il timore di poco fa, e per un attimo si chiede quale magia le abbia mai potuto fare quell'uomo, con le sue parole misteriose e quella maschera che sembra sempre sul punto di piangere. I gemelli d'oro che chiudono il polsino dell'uomo le sono sfilati davanti agli occhi, poi ha sentito le dita di lui passarle sui capelli, leggere come una corrente d'aria entrata da una finestra socchiusa. Ma non ci sono finestre, in quel posto, e Nina sa che è stata la sua mano a sfiorarla. Ciò che più che di tutto la stupisce è questa sua misteriosa accondiscendenza, questa miscela agrodolce di paura e attrazione che le si agita dentro. Sarebbe più naturale gridare, certo, o escogitare un sistema per richiamare l'aiuto di qualcuno. Ma se c'è una cosa che Nina non vuole, in questo momento, è proprio l'intrusione di un estraneo. Non vuole per nessun motivo che si possa rovinare l'impalpabile e ambigua complicità che si è creata tra loro due: tra lei e quell'uomo del quale conosce solo il suono della voce, la maschera che indossa, e la poesia struggente e segreta delle storie che le ha raccontato. L'uomo è in piedi di fronte a lei. I pizzi bordati di nero della sua camicia da sera all'altezza dei suoi occhi. La mano di lui le ha sfiorato i capelli lentamente, dalla sommità del capo fino alle spalle. Una lunga carezza leggera. Delicata e fragile come la loro intimità. Poi la mano dell'uomo si è sollevata di nuovo, ma senza più toccarla. Nina non alza lo sguardo, non dice una parola. Inclina solo la testa di lato, in silenzio, per cercare di nuovo il contatto di quelle dita che immagina sospese sopra di lei. (inedito) L'autore: Gianpiero Rigosi Giampiero Rigosi è nato nel 1962 a Bologna, dove vive e lavora. Ferrofilotramviere sulla rete urbana, ha pubblicato diversi racconti su quotidiani e riviste ed è apparso sulle raccolte “Giallo, nero e mistero” (Stampa Alternativa, 1994) e “Rzzzzz!” (Transeuropa, 1993). Ha pubblicato il romanzo “Dove finisce il sentiero” (Theoria, Roma, 1995) Sta per uscire, sempre con la casa editrice Theoria, una sua raccolta di racconti feroci, ironici e nerissimi, dal titolo Chiappe da Apache. |
sommario | pagina precedente | pagina successiva | e mail | numeri precedenti | mystfest |