Bologna, 30 maggio 1996 Mi ritrovo davanti allo schermo del mio portatile a scrivere questo racconto. Il vino mi circola nelle vene e la testa è avvolta nei fumi dell'alcool. La storia che state per leggere è il resoconto di cosa è accaduto ieri sera a cena da un amico. Mi scuso se potrebbe sembrare inverosimile e se non riporto la vicenda come è realmente accaduta. In realtà non ricordo. Non ricordo come è finita. Ho concluso la serata anticipatamente. Addormentato con la testa appoggiata sul tavolo. Sbronzo. In attesa di un fax. Mentre stavamo mangiando delle deliziose penne al caprino e maggiorana innaffiate da buon vino, Andrea, per un motivo che non ricordo, ha incominciato a raccontare di quando da adolescente era caduto ed aveva picchiato violentemente la testa. A causa di quella caduta perse definitivamente il senso dell'olfatto. Una vicenda che ci interessò molto, grazie anche alla notevole capacità di narrare del protagonista. Da quella storia abbiamo iniziato a raccontare vicissitudini simili che erano capitate a noi o a nostri conoscenti. Quando è venuto il mio turno, ho fatto notare una cicatrice sulla testa che porto da quindici anni. Il mio vicino di posto, Gianfranco, ha confermato la presenza di una lunga ferita. Da quella cicatrice ho iniziato il mio racconto. E' l'estate del millenovecentottantadue. E come ogni estate sono a Rimini con i miei genitori. Ho dodici anni. Un pomeriggio tornando dalla spiaggia, mano nella mano con mia madre, passo davanti ad una bancarella che vende giocattoli e oggetti vari per la spiaggia. Guardo la miriade di roba esposta. Il mio sguardo si sofferma su una fila di maschere da sub. Mi fermo ad osservare meglio quel gruppo di maschere. Tra tutte ne risalta una. Una maschera che mi attrae come una calamita. Rimango a contemplarla inebetito. Completamente. Come oggi mi colpisce una bella ragazza che porta a passeggio un gruppo di anziani. A questo punto ho interrotto il racconto. Ho bevuto un sorso di vino bianco, ho spinto gli occhiali, che erano scivolati sulla punta del naso, verso la fronte. E ho ripreso a raccontare. Mia madre mi dà uno strattone. Cerca di portarmi via. Io punto i piedi come un velocista ai blocchi di partenza. Mi dice di scordarmela. Che l'avrei usata qualche ora e poi me la sarei dimenticata. Io cerco di convincerla in tutti i modi. Non ci riesco. "Sì. Sì. Ti prego! Ti prego! " continuo implorante. Cerco di avere un'espressione più compassionevole possibile. Mia madre dice che ne riparleremo. Penso che se avesse detto di no, non me l'avrebbe comprata. Invece dice 'vedremo' e solitamente quando dice così si trasforma in un 'si'. Capisco la situazione. Lascio i blocchi di partenza. E ce ne andiamo a casa. Alla sera dopo aver finito di cenare aiuto mia madre a sparecchiare senza che lei me lo avesse chiesto. Mentre appoggio i piatti sporchi sull'acciaio del lavandino mi accorgo che sta sorridendo a mio padre. Penso che hanno parlato di me. E della maschera. Ne sono certo. Dopo che mia madre ha finito di lavare i piatti e le stoviglie, si prepara ed escono a passeggiare. Io rimango a casa. Una mossa strategica. Dopo circa mezz'ora sento la porta dell'entrata che si apre. Mi faccio trovare sul sussidiario. Mio padre si dirige nell'altra stanza mentre mia madre si avvicina a me. Mi chiede sorpresa cosa sto facendo. "I compiti mamma" rispondo senza alzare la testa dal libro. Mi dice, con il sorriso sulle labbra, che è tardi e che devo andare a letto. Io ritiro i libri e l'astuccio e vado in camera. Mentre esco dalla cucina mia madre dice che lei e mio padre erano usciti a comprarmi la maschera... Io mi fermo sulla porta. Sbarro gli occhi e mi volto. Colpito da una scarica elettrica. 'Lo sapevo. Lo sapevo' penso. Trattengo il fiato. La bocca mi si apre d'incanto. Aspetto la caramella. ... ma che purtroppo l'avevano già venduta. Un'onda mi sbatte sullo scoglio. Non dico nulla. In quel momento provo una sensazione che avrei avvertito qualche anno più tardi, quando una ragazzina di cui ero innamorato mi disse che le facevo schifo. Schifo schifo. Abbasso la testa e vado in camera. Mi sdraio sul letto. Appena tocco con la testa il cuscino, sento qualcosa di duro. Lo alzo. La vedo. La maschera! Mi manca il fiato. Sgrano gli occhi. Bellissima. E' nera con un bordo arancione di un paio di centimetri che circonda la visiera e due squaletti stilizzati ai lati. Stupenda. Cerco di addormentarmi velocemente perché penso che quando si dorme il tempo passa più velocemente. Dormo con la maschera sul viso. L'indomani mattina mi sveglio presto. Mangio poco a colazione per non dover aspettare le due ore canoniche prima di fare il bagno. La maschera è fissata sulla testa. Tutto è pronto per la grande esperienza. La testa sott'acqua. Quando entro in acqua impiego diversi minuti prima di immergermi completamente. Metto la testa sott'acqua. Non riesco a tenere gli occhi aperti se non per pochi secondi. Ho paura. Non so bene ancora di cosa. Ma ho paura. Il cuore mi sale in gola. Sono eccitato dalla paura di fare un'esperienza nuova. Il raccontare la mia avventura mi ha prosciugato la gola. Ho interrotto di nuovo la narrazione e ho versato del vino nel bicchiere che era nel mio stesso stato di siccità. Carlo ha colto l'occasione della pausa e ha portato in tavola altre bottiglie di vino. Finalmente apro gli occhi. Vedo la sabbia che si muove sotto i piedi alzandosi a intorpidire l'acqua. Riesco a tenere gli occhi aperti senza avere paura. Continuo a girare su me stesso. Mi muovo completamente a mio agio. Tengo la testa ora su e giù, sotto l'acqua. Mi allontano dalla spiaggia nuotando sotto la superficie dell'acqua. Sono contento di essere riuscito a vincere la mia paura. Ormai ho preso dimestichezza. Non ho più paura di mettere la testa sott'acqua. Sono a circa venti metri dalla riva. Ad un certo punto mi volto dando le spalle alla spiaggia. Davanti a me un pesce enorme si sta avvicinando. Veloce. Mi punta. Con la bocca aperta. Distinguo chiaramente i suoi denti aguzzi. La maschera è una cosa meravigliosa. Si vede tutto chiaramente. Tutti i denti. Sono l'ultima cosa che mi ricordo. Poi vengo morso da quel pesce. All'ospedale mi hanno dato ventidue punti di sutura in testa. Mi hanno poi spiegato quanto era accaduto. Diversi bagnanti hanno infatti giurato di aver visto uno squaletto dileguarsi verso il largo dopo che io mi ero agitato e avevo gridato come un demonio immerso in una macchia si sangue che si era allargata a vista d'occhio. Fortunatamente non ho avuto conseguenze fisiche se non quella di portare un caschetto protettivo, tipo ciclista, per tre mesi. Se penso però che oltre a quello avevo l'apparecchio mobile per i denti e gli occhiali, allora le conseguenze psichiche sono state disastrose. Messo al ludibrio di tutti i miei compagni di scuola e amici che mi hanno chiamato 'Il Mostro' per diversi mesi. E qualcuno si ricorda ancora di quel soprannome. E lo usa tuttora. Appena ho finito di raccontare, dalla tavola si sono alzate frasi di incredulità. "Non ci credo" disse Deborah. "E' impossibile. A Rimini. A venti metri dalla spiaggia. Uno squalo. Non è vero" Simona. "E magari grazie a questa storia hanno poi girato 'Lo squalo tre'..." Gianfranco a ruota. "E' una storia che hai inventato tu adesso. Sei ubriaco" Roberto. Furono alcune delle cose che mi dissero a tavola. "Non riesco a capire se adesso sono ubriaco. Ma è una storia vera. Se nel millenovecentottantadue ci fosse stata la trasmissione televisiva 'Ultimo Minuto' mi avrebbe chiamato subito". Ma ci fu anche qualcuno che non si capacitava del fatto che era a tavola con uno che era stato addentato da uno squalo. "Vedete, Carlo ci crede. Perché voi non dovreste farlo? E' proprio così - ho detto - E' tutto vero. Forse non ricordo più a quanti metri dalla riva stavo nuotando. Forse venti, forse trenta. Non ricordo. L'incredulità rimaneva. "Invece un mio amico - disse Giampiero - Ha visto un capodoglio nel buco di scarico del lavandino. Si è avvicinato per vederci meglio e ha picchiato la testa contro il bordo del lavandino ed è entrato in coma". Ci siamo messi tutti a ridere. "Beh, comunque, ripeto, il mio racconto è pura verità" ho ripreso io. Continuarono a mettermi in difficoltà. Cercavano di farmi contraddire. Per farmi svelare la verità. Una storia inventata di sana pianta. Ma non era così. Il racconto che avevo appena esposto non era frutto della mia fantasia e del vino bianco che avevo fin lì bevuto. Era realmente accaduto. Ero stato morso da uno squaletto a venti metri dalla spiaggia di Rimini. "Dacci una prova" disse Gianfranco. "E' vero. Hai qualche prova?" mi chiese Giampiero. Io appoggiai il bicchiere vuoto. Deglutii il vino e risposi. "All'epoca la mia vicenda fu riportata dal 'Resto del Carlino'. Ovviamente non ho qui con me l'articolo. Mai avrei pensato di raccontare la storia questa sera. Ma lo porterò alla prossima occasione". "No - disse Giampiero non controllando il tono alcolico della voce - Daccela subito questa prova". Non ho detto nulla. Ho pensato qualche secondo sul da farsi. "Beh, un modo ci sarebbe. Potrei farmi spedire il servizio tramite fax... Se Carlo è d'accordo...". Carlo si è alzato per andare ad attivare il fax. Tutti erano ansiosi di vedere se quanto avevo raccontato fosse vero. La curiosità è parte integrante del demone dello scrivere. Tutti i presenti lo sapevano e se lo sentivano dentro. Soprattutto Giampiero il più scettico. Ed io sapevo che avrebbe accettato la mia proposta. "Io mi faccio spedire l'articolo ad una condizione". "Quale?" chiese Eraldo. "Facciamo una scommessa. Ricordate il racconto di Roald Dahl? 'La scommessa'?". Tutti annuirono. “Bene. Se è vero quello che dico e se voi lo riterrete tale, taglierò il mignolo sinistro di ognuno di voi. E’ un dito che non si usa mai”. Tutti all’unisono dissero che no, non avrebbero partecipato alla scommessa. Che era una cosa da pazzi ubriachi. “Siamo tutti sbronzi... ma non pazzi. Questo è sicuro” disse Simona. “Allora puoi spegnere il fax - dissi a Carlo - Non se fa nulla”. “Fermi tutti - Giampiero disse in piedi alzando la voce - Io ci sto”. 'Centro! Ho fatto centro!!!' pensai. Tutti lo guardammo. Nessuno aprì bocca per un paio di secondi. Poi contemporaneamente parlarono. Dissero che era ubriaco, il più ubriaco di tutti ed anche pazzo. Pazzo da ricovero immediato. Di non fare sciocchezze. Che era giunto il momento di andare a dormire ed altre cose per cercar di fargli cambiare idea. Ma Giampiero era determinato. Voleva scommettere. Quando i commensali capirono che non c’era modo di fargli cambiare idea, qualcuno disse a Giampiero di chiedere una controparte alla scommessa. Lui però non volle nulla. Eraldo, Roberto e Deborah dissero che non volevano assistere ad uno spettacolo del genere. Volevano andarsene. Ma furono convinti a restare. Senza troppo insistere. Telefonai a casa per farmi spedire il fax. In attesa che arrivasse continuammo a bere. Mi accesi un sigaro e una nuvola di fumo si alzò dalla tavola, mescolandosi con quello delle numerose sigarette. Gli argomenti di cui parlammo non si staccarono dalla mia storia. Mangiammo un’insalata di wurstel, pomodori, patate e mozzarella parlando di disgrazie nostre e di altre persone che fortunatamente non hanno avuto conseguenze gravi. Carlo mise in tavola altre bottiglie di vino, di whiskey e grappa. Bevvi in un sorso un bicchierino di grappa. Avevo superato il confine. Ero passato dall'altra parte. Ero stanco e ubriaco. Molto. Appoggiai la testa sul tavolo pensando a cosa avrei potuto dire e fare da lì a poco. Chiusi gli occhi. Mi addormentai... Dopo una ventina di minuti il fax con l’articolo del ‘Resto del Carlino’ arrivò. Ci fu un consulto e alla fine credettero alla mia storia dello squaletto a Rimini. Cercarono di dissuadermi, soprattutto cercarono di far cambiare idea a Giampiero, di ritrattare. Tutto fu inutile. Non cambiammo idea. Mi guardai attorno e vidi volti preoccupati. Nessuno parlava. L’unico che aprì bocca fu proprio Giampiero che disse:”E’ tardi. Domani devo andare a lavorare presto. Tagliami il dito”. Una frase che sarebbe potuta uscire da un film di Tarantino. Presi il tagliasigari dalla tasca. Alzai la lama superiore. Giampiero appoggiò il dito su quella inferiore. Diciotto occhi erano su quella lama. Richiusi le due lame con un colpo secco. Il dito non si staccò subito. Rialzai la lama con fatica. Chiusi nuovamente facendo più forza. Il mignolo cadde sul piatto. Con gli avanzi dell’insalata. Andandosi a mimetizzarsi con i wurstel. Giampiero non sentì molto dolore. L’alcool è un ottimo anestetico. Tutti lo fissammo. Rapiti dalla mano a quattro dita. Presi il dito dal piatto e lo avvolsi nel tovagliolo. Subito non ricordai a quante dita ero arrivato nella mia collezione. La storiella dello squaletto funzionava sempre. Pensai anche che oggi il computer fa miracoli. Ognuno può realizzare l’articolo giornalistico che più gli piace. Elaborarlo e farlo sembrare vero. Ritagliato da un quotidiano. (inedito) L'autore: Matteo Severgnini Matteo Severgnini è nato nel 1970. Vive tra Omegna (VB) e Bologna, dove è iscritto al DAMS. Ex giocatore di pallacanestro, è ora addetto stampa per la società Basket Fulgor Omegna. Sceneggiatore di fumetti collabora con la rivista "Pucianiga comix" e per la Casa Editrice Dardo ha scritto una storia in tre albi per il personaggio Videomax. Ha partecipato alle antologie "Dal Bianco al nero", ed. Casa Rosa '93; "Sospeso - racconti d'autore", ed. Entronauta '94; "Penombra", ed. Casa Rosa '95 e "Inverno giallo 1996", ed. Mondadori '96 con il racconto "Il contratto". |
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