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Eraldo Baldini
Re di carnevale
Note biografiche


RE DI CARNEVALE

racconto di

Eraldo Baldini



Gli avevano indicato bene la strada per arrivarci; gli avevano detto che il paese era molto lontano da tutti gli altri, perso fra le colline, e che l’avrebbe visto solo all’ultimo momento, nascosto com’era in una valle circolare e profonda; gli avevano raccontato che, come nel tronco di un albero tagliato, anche nei muri di sasso di quelle vecchie case si potevano leggere gli anni - i secoli - di quel posto fuori dal mondo.
Ma non l’avevano avvertito che là la gente era taciturna e scontrosa, al limite della maleducazione.
Nella locanda affacciata sulla piccola piazza, tutta raccolta attorno ad una vecchia fontana che gettava con forza, come per liberarsene, un’acqua intollerabilmente fredda, l’avevano accettato a malincuore, nonostante che, almeno all’apparenza, tutte le camere fossero vuote. Il proprietario gli aveva detto sgarbatamente che non faceva servizio di ristorante e che avrebbe potuto pranzare nell’unica osteria del paese; e quando chiese ai passanti notizie dell’osteria, si vide rispondere con muti cenni della testa e delle mani.
«Bel posticino», pensò tra sé. «Non capisco come gente simile possa festeggiare il carnevale, e farlo in un modo così interessante da valere la visita di un giornalista.»
Un’idea, quel servizio, di “Capo” Lo Russo, re della redazione e delle idee bislacche; con una sorta di euforia sussurrante gli aveva fatto balenare la prospettiva di uno scoop: «Il carnevale di Carsano è una chicca, un pezzo di preistoria vivente, noto solo a qualche studioso di folklore e sconosciuto al pubblico. Cavacene foto speciali e articoli forti».
Per ora di forte aveva solo il mal di testa, quello dei giorni brutti, che si faceva annunciare da un dolore dietro l’orecchio destro prima di stendere i suoi tentacoli tutt’intorno, alla fronte, alle tempie, alla nuca. Non aveva voglia di disfare le valigie ed era indispettito perché, nonostante il radiatore monumentale (quello sì era un pezzo di preistoria), il freddo e l’umido della stanza erano come un lenzuolo bagnato da tenere addosso. Guardò fuori, e nel buio della sera che arrivava rapida vide, tra le persiane di una finestra della casa di fronte, gli occhi gialli di un gatto e quelli bianchi di una vecchia. Donna e animale sembravano fissarlo. Chiuse le tende e sentì il bisogno assoluto di un caffè e di due Optalidon da buttare giù subito, prima che la testa gli scoppiasse.



Gozzuti, anche. Maleducati, primitivi e gozzuti, questi montanari dall’aria ostile.
Il mattino si era annunciato con riflessi acquosi e metallici dietro le vecchie tende, spingendolo ad alzarsi dopo un sonno senza sogni ma irrequieto di freddo. Di far colazione nella locanda, neanche a pensarci. Era uscito e ne aveva incontrati diversi: gozzuti, come si vuole che siano gli abitanti delle valli più isolate. E dire che qui si era in Appennino, neanche tanto in alto e a poche decine di chilometri dal mare, quello della riviera più affollata, sfavillante e viva che conoscesse.
In un piccolo bar dove stagnava un odore pesante prese un cappuccio, una fetta di un dolce senza nome, e provò col barista e coi tre presenti ad attaccare discorso. Ricevette in risposta qualche monosillabo e occhiate prive di simpatia. Accennò al carnevale e un vecchio alto dai capelli bianchi e ispidi biascicò qualcosa in un dialetto incomprensibile, accompagnandosi con cenni di un dito che potevano essere una minaccia, un’informazione o chissà cos’altro.
«Prego?», disse cercando di usare un tono credibilmente gentile.
«Dice che non lo facciamo mica per i forestieri o per i turisti, il carnevale», tradusse un ragazzo sui quindici anni, biondiccio e dal naso arrossato.
«Non sono un turista. Mi chiamo Bianchini, sono un giornalista e vorrei fare un servizio...»
Gelo e silenzio.
«Anzi, se foste così gentili, vorrei approfittare per chiedervi qualche informazione...»
I due vecchi si alzarono e uscirono, il ragazzo - sembrava, nonostante tutto, il meno selvatico - lo guardò senza espressione.
Bianchini sentì la collera arrivare, ed ebbe la grande tentazione di acchiappare un telefono, chiamare “Capo” Lo Russo (se lo immaginava, nel panorama gremito e frenetico della redazione, che si aggirava sudato e col solito schifo di stuzzicadenti in bocca) e dirgli che lo scoop stava arrivando, che stesse pronto a schiaffarselo in quel posto.
Uscì dal bar nel mattino nuvoloso che incupiva sempre più e decise di percorrere subito l’unica strada che gli sembrava sensata. Andò a quello che, sotto un porticato, era indicato da un cartello come “Ufficio della delegazione comunale”; ma ancora prima di bussare - non c’era campanello - capì dalla polvere accumulata sui battenti che quella porta non veniva aperta da molto tempo. Fu una donna che passava con un orcio pieno d’acqua tenuto sulla testa a dirgli che l’ufficio era stato soppresso da almeno un anno: «Se ha bisogno, dovrà andar giù a San Severo. Ma io mica ci andrei: forse comincia a nevicare».
Bianchini non riuscì neanche a risponderle, a ringraziarla dell’informazione. Primo, perché a lui risultava che la delegazione comunale doveva essere aperta e funzionante; secondo, perché quella donna gli aveva rivolto ben diciotto parole, record assoluto da quando era arrivato a Carsano; terzo perché si accorse che, davvero, dal cielo plumbeo cadeva qualcosa: non neve, ma granelli di ghiaccio che frusciavano e gli rimbalzavano sull’impermeabile (“neanche la neve quaggiù è normale”: si annotò mentalmente la frase per l’articolo).
Guardò ancora con rabbia impotente la porta polverosa dell’ex ufficio municipale e se ne andò. Nella rivendita di sali e tabacchi, all’altro lato della strada, alla luce di una lampadina nuda penzolante da un lungo filo elettrico a treccia, vide un groviglio di capelli sporgere dietro il vecchio bancone.
«C’è nessuno?» chiese rivolto ai capelli. Quando la donna si alzò in piedi e riuscì a vederle anche gli occhi e il naso, fu possibile una parvenza di conversazione dalla quale Bianchini apprese che Carsano non aveva una scuola, né una biblioteca, né altro di simile. Fu la parola “carnevale” a mettere fine al colloquio: la donna sembrò aver perso all’improvviso l’uso dell’italiano, passò al dialetto e si ingegnò a sistemare pacchetti di sigarette sparsi su una coltre annosa di polvere di tabacco.
Uscì avvilito e irritato, guardò il cielo da cui arrivava ancora qualche grano di ghiaccio e se ne tornò alla locanda per mettere un maglione più pesante. Faceva davvero un freddo boia e da dietro l’orecchio destro partivano, subdoli, dei segnali che riconobbe con disgusto. Inghiottì gli ultimi due Optalidon rimastigli e pensò: «Scommetto che in questo posto del cavolo non c’è neanche una farmacia».
Uscì di nuovo, e gli ci volle poco per capire di avere vinto la scommessa.

***


Quello fu uno dei pomeriggi più infruttuosi della sua vita. Fece qualche foto del luogo, girovagò, cercò di parlare con la gente, ma era come voler cavare sangue dalle rape. Secondo le informazioni di “Capo” Lo Russo e la logica del calendario, i riti del carnevale avrebbero dovuto aver luogo l’indomani, martedì grasso. Ma niente, intorno, portava i segni di una festa imminente.
Fu solo nel tardo pomeriggio, quando già iscuriva, che percorrendo una strada - quasi una mulattiera - che usciva in salita dal paese, vide, in uno spiazzo spoglio e bruciato dal gelo, gente che accatastava legna, sterpi secchi, fascine e paglia. Si fermarono nel vederlo arrivare e i loro sguardi, da soli, gli fecero passare la voglia di far loro domande e di fotografarli.
«E va bene, imbecilli» mormorò, «non volete l’articolo? Non l’avrete. Del resto ho più voglia di prendere il morbillo che di scrivere qualcosa di voi e del vostro paese.»
Fece dietro-front e tornò verso l’abitato. Il buio era arrivato rapido e denso, aiutato da una foschia che sfuocava le poche cose distinguibili e che dipingeva aloni malati attorno alle rade e deboli luci del paese. Chissà se anche a Milano c’era nebbia; e chissà che faceva Silvia in quel momento.
Affrettò il passo. Nella stretta curva oltre la quale si intravedevano le prime case, seduto su un parapetto di pietre muschiose, c’era il ragazzo che gli aveva parlato il mattino, quello dal naso arrossato. «Signore, stia attento dopo la curva», gli disse.
Lo guardò perplesso. «Perché?»
«C’è un terrapieno che finisce nel burrone. E appena oltre il ciglio, sopra il vuoto, quando fa buio e nebbia come stasera, ci vola un gufo che tiene tra gli artigli un lume acceso. Se qualcuno va verso la luce, cade giù in fondo.»
Bianchini rabbrividì, rimase immobile qualche secondo, poi si scosse e riprese a camminare senza voltarsi. «Dio mio», pensò, «è tutto scemo, come gli altri.» Non sapeva perché, ma le parole del ragazzo lo avevano turbato, gli avevano, come la nebbia, infilato mani fredde e bagnate lungo la schiena.
Il resto venne nel crocicchio buio all’ingresso del paese. Sbucando da sotto il porticato gli si parò di fronte, con un grugnito, una figura coperta di paglia e foglie secche di granturco fruscianti, con una nera faccia di corteccia atteggiata a un’orribile smorfia, a un urlo silenzioso. Poco lontano, al suono di un campanaccio, un’altra figura si muoveva a balzi e pareva coperta di un folto pelo animale.
Aveva visto le prime maschere del carnevale di Carsano; e non desiderava vederne altre, né restare in quel posto un giorno di più
Corse col pensiero a Milano e a Silvia. Gli parevano lontani non trecento chilometri, ma trecento anni.

***


Un solo telefono pubblico, e proprio sul bancone della locanda davanti al quale, la sera, attorno a tavoli nudi, un campionario della fauna umana di Carsano si riuniva a bere vino e a parlare in quella lingua incomprensibile dai suoni gutturali.
«Fa niente», si disse esasperato; «anzi, meglio così: sapranno tutti che tolgo il disturbo.» Fece il numero diretto del capo-redattore, sperando che a quell’ora fosse ancora in ufficio.
Dopo tre squilli, cadde la linea.
Girò lo sguardo intorno e si accorse - già l’aveva intuito dall’improvviso silenzio - che tutti lo stavano fissando con sfrontatezza. Il calore che l’aveva assalito al volto diventò un velo di sudore; rifece il numero artigliando il telefono e bestemmiando mentalmente, mentre all’orecchio gli si confondevano il “tuuu” del ricevitore e le pompate del sangue alle tempie.
«Lo Russo» urlò dalla cornetta una voce disturbata e lontana.
«Capo, sono Bianchini.»
«Ah! Tutto bene?»
«Bene un corno. Sto facendo le valigie e me ne torno a Milano. Qua non si riesce a lavorare... le spiegherò poi.»
«Che cavolo significa “non si riesce a lavorare”?» gracchiò “Capo” Lo Russo, e Bianchini se lo immaginò che sputava lo stuzzicadenti e si contorceva sulla sedia.
«Senta, questo carnevale in realtà è una cosa da niente, non merita che si paghi una trasferta. E poi ho detto che le spiegherò, adesso sto finendo i gettoni», disse mentendo (c’era il contatore a scatti) e sentendo che il sudore era arrivato alle mani e inumidiva la cornetta.
Sbirciò veloce intorno: gli sguardi fissi dei gozzuti non lo mollavano. Dalla cornetta arrivavano solo sbuffi irritati. «Senta, capo» continuò in fretta, per troncare, «se vuole faccio un salto giù in riviera; ho in mente alcune cose, so di sfide notturne di auto che si lanciano attraverso gli incroci, roba forte; e poi là il carnevale lo festeggieranno, no? Ci sono almeno mille locali, feste; e poi...»
«Va be’, fa quello che vuoi. Dopodomani ti voglio qui.» “Capo” Lo Russo sbattè giù il telefono.
Bianchini appoggiò la cornetta piano, come se temesse di romperla e si passò una mano sulla fronte, sentendo che i capelli vi erano incollati dal sudore. Quando si girò per tornare in camera, vide che i gozzuti parlottavano piano. Non fece in tempo a voltare le spalle, che con un gesto e una sillaba lo invitarono a sedersi con loro.
«Questa poi le supera tutte...», pensò.
Voleva cacciare quella assurda sensazione di sollievo, quasi di gratitudine, voleva guardarli con disprezzo e andarsene. Ma si lasciò cadere sulla sedia e accettò un bicchiere di vino rosso e spumoso. Per la prima volta, da quando era a Carsano, ebbe l’impressione che quelli intorno a lui avessero qualche sembianza umana.
Prima bevvero parlando poco, solo guardandolo. Poi venne fuori la questione: erano gelosi del loro carnevale e pativano la derisione di quelli dei paesi vicini che li consideravano dei primitivi, degli strambi. Soprattutto, disse uno di loro, per via del Rito Vecchio, quello conclusivo di tutta la festa, suggestivo e di stampo arcaico. Per questo non volevano forestieri tra i piedi, in quei giorni.
Bianchini annuiva alle loro parole. Dopo qualche bicchiere si sentì la lingua più sciolta: «E’ un peccato che non vogliate che si documenti quello che fate qui, dev’essere una cosa molto interessante. Il carnevale poi affascina sempre, ovunque».
Adesso erano i gozzuti che annuivano. Conversarono ancora, ma il vino era di quelli tosti e Bianchini, che non aveva cenato, sentiva la propria voce come estranea, come se fosse qualcun altro a parlare. Si divertiva ad ascoltarsi e sorrideva.
Fu quando ringraziò la comitiva, stringendo mani, e si alzò per andare su in camera, che gli dissero: «Dato che non scriverà l’articolo, può restare per la festa. Anzi, le chiediamo di farci l’onore di essere il re del nostro carnevale di quest’anno».
Ringraziò ancora, strinse altre mani, salì e si sdraiò sul letto, tenendosi alle coperte perché tutta la stanza girava mentre il vino gli dava un calore acido allo stomaco e un sibilo alle orecchie. «Grazie dell’invito, imbecilli» ridacchiò tra sé. «E per quanto riguarda l’articolo, mi sa proprio che lo scriverò, vi piaccia o non vi piaccia. Tanto voi lo vedrete solo (ammesso che lo vediate: c’è un’edicola qua?) quando io sarò già da un po’ a trecento chilometri da questo buco.»
Si fece prendere da un sonno pieno di sogni ubriachi anch’essi, in cui “Capo” Lo Russo lo elogiava, gli baciava le mani e si offriva di andargli a comprare gli Optalidon in farmacia.

***


Si svegliò tardi, il mattino dopo. Aveva in bocca una saporaccio non più provato da quando, due anni prima, aveva smesso di fumare.
Nel piccolo bagno, mentre si torturava la faccia con acqua tagliente, sentì arrivare da fuori rumori, urla, scampanii. Si affacciò alla finestra, piccolissima e ritagliata in un muro spesso un buon mezzo metro; nella piazzetta dall’acciottolato lucente di umidità, attorno alla fontana addobbata con rami di ginepro e d’abete, persone mascherate saltavano e si muovevano come in una goffa danza.
Non aveva mai visto travestimenti simili; o perlomeno non li aveva mai visti dal vero. Gli ricordavano quelli notati in certi servizi di riviste o in filmati sulle tribù primitive: musi animali atteggiati a smorfie grottesche, corna bovine e di capra, pelliccioni irsuti, nere faccie diaboliche; e poi uomini (o donne? chissà) che parevano cespugli viventi, coperti com’erano di rami di sempreverde, edera, ciuffi di muschio stretti alle frasche con steli vegetali e legacci di paglia. Grugniti, urla gutturali, fischi e suoni di corno, di campanaccio, di sonagli rudimentali riempivano l’aria.
Prive di travestimento, alcune donne con gli orci arrivavano alla fontana e venivano circondate da quelle figure saltellanti che fingevano di ghermirle con artigli appuntiti di paglia e di ossa.
Non ridevano, le donne, non rispondevano al gioco. Svelte riempivano l’orcio e a occhi bassi scivolavano via.
Bianchini si vestì, preparò la macchina fotografica e si lanciò per la scala stretta e buia; a metà si bloccò un attimo e nascose la Nikon in una tasca del giaccone, ripromettendosi di usarla. Davanti al bancone della locanda, due di quelle figure parevano attenderlo: un uomo cespuglio, col viso tinto di fuliggine seminascosto da una cascata d’edera, e un uomo capra tintinnante di sonagli bevevano grappa giallastra che riempiva di un odore acuto il locale.
Poche parole, gesti. Sognando un caffè bevve con loro un bicchiere di quel liquore bruciante. Poi uscirono nella piazzetta che era tutta una cacofonia di suoni strani, tutto un muoversi di gesti sgraziati.
Lo accolsero con urla e salti, gli misero in testa un cappello nero guarnito di nastri colorati e, tirandolo di qua e di là per le braccia, lo condussero in un girotondo attorno alla fontana. «Il re di carnevale! Il re di carnevale!» gridavano, mentre dalle finestre visi di donne apparivano di sfuggita a guardare senza sorriso.
Non si rese conto di quanto durasse quella scorribanda. Lo trascinarono in corse per le viuzze strette del paese, lo costrinsero ad affacciarsi a porte di case, lo portarono al centro di baccanali di esagitati che parevano festeggiarlo e minacciarlo allo stesso tempo. Si prestò al gioco; essevi dentro, esserne parte era una buona occasione per osservarlo meglio e per saperlo poi descrivere con abbondanza di particolari. Ma i gozzuti, taciturni, scostanti e freddi fino a poche ore prima e ora trasformati nella festa, non avevano misura, non si fermavano, continuavano a tirarlo, a spingerlo, a muoversi e a muoverlo al suono di grida rozze e di strumenti improvvisati.
Quando ormai il reapiro gli veniva meno per quelle corse folli, quando l’irritazione cominciò a prendere il posto dell’eccitazione e della curiosità, quando un’inquietudine crescente cominciò a invaderlo e lo stomaco prese a ribellarsi per la grappa bevuta a digiuno e per il vortice dei girotondo, si tolse il cappello, lo tese a uno dei mascherati e disse: «Bene, amici, grazie di tutto. Però io adesso mi fermo. Sto a guardarvi. Siete stati gentili». Pensò un attimo, ansimando con le mani sui fianchi, e aggiunse: «Pensate che potrei fare un paio di fotografie?».
«Ma non ti puoi fermare! Sei il re della festa!» gridarono. Gli rificcarono in testa il cappello, in un crescendo di suoni assordanti, e mentre nuove figure confluivano attorno a lui da ogni vicolo, da ogni porta, gli fecero imboccare la mulattiera che usciva dal paese, verso la cima della collina.
Lo stomaco gli si contrasse. Cercò di nuovo di togliersi quel ridicolo copricapo e di uscire da quella schiera di esaltati, ma mani senza garbo, pungenti di paglia e umide di muschio, si serrarono sulle sue, gli afferrarono le spalle, il collo, e lo spinsero avanti.
«Ehi, amico, il bello viene adesso», gli disse una voce soffocata sotto un ghigno di corteccia nera. «Siamo al momento più interessante della festa: il Rito Vecchio. Nessun forestiero l’ha mai visto; o meglio, nessun forestiero che l’abbia visto ha mai potuto raccontarlo...»
Bianchini, sentendo urla alte venire dallo spiazzo sul fianco della collina, volse di scatto lo sguardo in quella direzione: alcune figure mascherate avevano appiccato il fuoco alla grande catasta che aveva visto preparare la sera prima.
Solo allora, come in un lampo raggelante, capì. Si sottrasse alle braccia fronzute e fruscianti di paglia e di foglie secche, scappò scivolando sulle pietre viscide, coi nastri colorati del cappello che svolazzavano come una variopinta criniera.
Sentiva dietro di sé, inesorabili e sempre più vicini, i fischi, gli strepiti, i muggiti e le grida: «Il re di carnevale! Brucia brucia il carnevale!».
Ancora uomini albero e uomini bestia, neri musi cornuti e assurde facce fronzute sbucarono da ogni angolo, aggiungendosi ai suoi inseguitori; poi lo presero e issandolo in alto, nella morsa di mani arbusto e di mani artiglio, lo portarono, come in un grottesco trionfo, verso il rogo crepitante.
«Lasciatemi!» urlò divincolandosi. «Sciagurati, sanno che sono qui... Non ve la caverete!»
«No, amico», gli disse la voce di uno dei mascherati, «sanno che sei partito per andare giù in riviera. Qui non troveranno né la tua automobile, né altro di te; e tutti diremo che ti abbiamo visto andar via.»
Gli occhi sbarrati di Bianchini non si staccavano dal grande fuoco e dalle figure nere e saltellanti che vi correvano goffamente intorno, mentre un fumo denso saliva verso il cielo grigio e gli schiamazzi risuonavano, sempre più alti, tra le colline velate di foschia.


(Con questo racconto Eraldo Baldini ha vinto il Premio «Gran Giallo Città di Cattolica», la sezione letteraria del Mystfest, nel 1991)
L'autore: Eraldo Baldini

Eraldo Baldini è nato a Ravenna nel 1955. Ha pubblicato le raccolte di racconti "Nella nebbia" (Longo, Ravenna 1988) e "Urla nel grano" (Moby Dick, Faenza 1994), e il romanzo "Bambine" (Theoria, Roma 1995)


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